Il motivo di fondo che collega gli spunti presenti in questa sezione può essere riassunto dalle parole di Clifford Geertz, “scopo dell’antropologia è l’ampliamento dell’universo del discorso umano”. Lo stesso Geertz ci dà una dimostrazione esemplare di come l’interdisciplinarietà possa costituire il terreno privilegiato di questo ampliamento. Nel suo articolo From the native point of view, on the nature of anthropological understanding” (Geertz 1983) egli riprende due concetti coniati in tutt’altro contesto dallo psicoanalista Heinz Kohut, due modalità che si possono applicare a più ambiti disciplinari, le dimensioni di un conoscere “vicino all’esperienza” (experience-near) e di un conoscere “lontano dall’esperienza” (experience-far).
La prima modalità potrebbe essere tradotta come ‘osservazione partecipante’, ‘empatia’, ‘dimensione transferale immediata’, la seconda come un ‘lavoro del pensiero e della cultura’, come una ‘riflessione teorica’ che contribuisce ad ampliare la comprensione dei fenomeni osservati. Per Geertz le due modalità diventano fertili solo se si fecondano a vicenda, nella classica dialettica tra prassi e teoria. Ma questa generatività vale non solo all’interno di una data area disciplinare, poiché concetti tratti da un’altra disciplina possono fecondare la comprensione di fenomeni che vengono solitamente presi in considerazione a partire da una diversa griglia disciplinare. La complessità della nostra epoca richiede uno sforzo particolare del pensiero: senza cadere in un superficiale eclettismo, si tratta di compensare la tendenza alla risposta iperspecialistica e la tentazione dell’aderenza ideologica a una data ‘chiesa’ disciplinare con un apertura costituiva che coniughi intercultura e interdisciplinarietà.
E’ esemplare il modo in cui Geertz illustra la paziente danza ermeneutica tra queste due dimensioni, sempre integrata da una costante e paziente pratica della presenza e dalla verifica sul campo. Nell’articolo in questione questa metodologia porta alla ricostruzione delle varianti di un concetto apparente omogeneo come quello di identità, ricostruendo il contesto che permette di comprendere a fondo le parole e i modi in cui esso si declina in culture tanto diverse quanto quelle di Giava, Bali e Marocco.
Uno sguardo autenticamente pluralista non pretenderà dunque di ricondurre tutto a unità, accettando invece che culture diverse possano costruire visioni del mondo parzialmente e reciprocamente incompatibili e accettando inoltre la possibilità di una pluralità di appartenenze (Sen 2008).
Anche l’opera di Raimon Panikkar è ricca di spunti che vanno in questa direzione (Panikkar 2009/2): si veda ad esempio il suo concetto di ‘equivalenti omeomorfi’ per cui ogni lingua e cultura nomina il mondo e l’esperienza in modo unico. Il reale è sempre interpellato da un’interrogazione umana che nasce in un contesto determinato e in questo contesto trova la sua parola. Una parola che è relativa, relazionale e contingente e tuttavia costruttiva e niente affatto nichilista. Un corollario importante di questa relatività culturale è il riconoscimento che il pluralismo è la forma più adeguata per contemplare il fenomeno umano. Nessuna nominazione può assimilare le altre perché ognuna nomina l’esperienza con tutta la ricchezza e specificità della propria forma. Le lingue e le parole non sono solo un reperto del passato, ma il distillato della natura umana e delle sue tradizioni. Per esempio ‘Dharma’, ‘bhakti’, ‘din’, ‘religione’ non si equivalgono e sono reciprocamente irriducibili ma nominano le diverse forme dell’esperienza culturale di una certa dimensione dell’essere e della psiche. Inoltre la parola che si incarna in tali forme si colora di modalità narrative e immaginali ovvero simboliche che non sono riconducibili alla mera astrazione concettuale - l’arte la danza, la pittura, il canto, l’architettura.
Questa rivalutazione simbolica del pluralismo può dar conto contemporaneamente dell’irriducibile resistenza del Reale alla tentazione di imporre interpretazioni definitive e univoche e rivitalizzare in modo fertile la dimensione mitica delle forme culturali dell’umanità. “La verità è pluralistica perché la realtà stessa lo è, non essendo una entità oggettivabile. Noi soggetti, siamo anche parte di essa. Non siamo solo spettatori del reale, ne siamo anche co-attori e persino co-autori. Questa è precisamente la nostra dignità umana” (Panikkar 2009/1)
Alcune delle riflessioni panikkariane ricordano quelle di Carl Gustav Jung sulla predisposizione della psiche a produrre e costruire narrazioni (Jung 1934) che danno senso alla condizione umana, attraverso, i miti, la produzione onirica, il gioco, le fiabe. (Jung 1943) Sulle fiabe come eco e deposito vivo della dimensione rituale già aveva scritto Vladimir Propp (Propp 1928) mentre Marie Louise von Franz (von Franz 1987, 1989) e James Hillman (Hillman 1983) hanno ripreso e ampliato l’idea junghiana di un deposito narrativo archetipico e di una sua dinamizzazione attraverso le ‘fiabe che curano’. Del resto le tradizioni più antiche rivelano che l’umano non è qualcosa di dato se non nella sua indeterminazione, parzialità e incompletezza, e che la ‘fabbricazione’ dell’umano è un processo narrativo complesso e una vera e propria creatio continua (Dubosc 2008)
Senza pensare che l’ordine narrativo del discorso costituisca la panacea di tutte le difficoltà del conoscere dobbiamo prendere atto come in ambiti diversi (per es. Arendt, Ricoeur, Bruner, Morin) esso sia emerso nel corso del secolo scorso come principio organizzativo che abbraccia non solo le dinamiche della memoria e della cultura ma la stessa possibilità di dialogo tra teorie apparentemente inconciliabili.
Possiamo considerare in questa prospettiva anche le diverse narrazioni psiconalitiche: per esempio la teoria del Padre dell’orda e del pasto totemico di Freud può essere letta come una variante narrativa del tema mitico dello smembramento originario da cui origina la creazione e non come una sua definitiva interpretazione. La psicoanalisi è ricca di narrazioni fertili: la teoria dell’attaccamento di Bowlby e i suoi possibili legami con la teoria dei sistemi; le considerazioni sull’aggressività e sul gioco come spazio transizionale in Winnicott, la raffinata visione dei processi psichici di Bion, la griglia reale/simbolico/immaginario di Lacan, sono solo qualche esempio di una cultura, quella psicoanalitica, che nel suo divenire alterna solipsismi teorici a slanci alti e creativi del pensiero.
Nella prospettiva del circolo ermeneutico tra distance-near e distance-far, per esempio, le narrazioni psicoanalitiche possono gettare luce su alcuni aspetti delle pulsioni distruttive insite in una certa ‘religiosità’ difensiva e così ‘vicine’ ad essa da essere invisibili, ma anche le narrazioni religiose (si pensi alla storia di Caino e Abele, o al sacrificio di Isacco), possono illuminare il tema della distruttività che ha costellato la storia dei punti ciechi e degli ‘agiti’ della psicoanalisi. (Dubosc 2007)
Infine, tra i temi di riflessione con cui dialogare in una prospettiva narrativa non si può dimenticare il contributo della filosofia contemporanea (da Arendt a Foucault, da Benjamin a Esposito e Agamben) alla comprensione dei dispositivi sociali di controllo (biopolitica) e alla stessa comprensione di alcuni aspetti della contemporaneità che il fenomeno migrante illumina (‘nuda vita’). Come scrive per esempio Roberto Esposito: “…fare della vita l’orizzonte di pertinenza della filosofia, significa (…) sottrarla a un paradigma oggettivista che in nome di una pretesa scientificità, finisce per cancellarne il carattere drammaticamente soggettivo (…) il vivente è colui che eccede sempre i parametri oggettivi della vita.” (Esposito 2004)
Altre aree di ispirazione per così dire “contigue” vegono dalla psichiatria fenomenologica e dalle lotte della psichiatria democratica italiana degli anni Settanta.
Per venire a tempi più recenti menzioniamo, tra i tanti degni di nota, i contributi di antropologi come Arjun Appadurai, nell’area dei cosiddetti studi post-coloniali, quelli dello psicoanalista-filosofo Slavoj Zizek con la sua ricca produzione polemica o quelli di filsosofe di area femminista come Gayatri Spivak e Judith Butler con i loro controversi ma vitali apporti sulle questioni di genere e identitarie.
Di fronte alle complessità dell’età contemporanea la sfida è insomma quella di sviluppare una sensibilità culturale (‘etno’) capace di coniugarsi con l’attenzione alla processualità insita nei sistemi complessi (‘sistemica’) così come si articola nel mondo e nel pensiero contemporaneo ritrovando con attenzione partecipata e intelligente la forza di costruire storie capaci di fare storia nell contesto presente. (‘narrativa’).